Catania Salette

I cuori non vanno in prigione

Incontro con don Francesco Bontà cappellano del Carcere Minorile di Catania “Bicocca”.

Pubblichiamo l’articolo apparso sul Bollettino Salesiano, di febbraio 2018, in queste pagine, nella rubrica l’Inviato, di Linda Perino, vi è una intervista interessante a don Francesco Bontà, cappellano presso il Carcere Minorile di Biccoca e parroco presso la Parrocchia di Santa Maria della Salette sempre a Catania.


Come è nata la tua vocazione?
Penso che la mia vocazione nasca e maturi piano piano; ricordo con piacere che durante il periodo estivo dei miei anni alla Scuola Superiore vivevo delle esperienze fuori dal mio paese a Camporeale. In questo paese del Palermitano vi era una casa famiglia gestita proprio dai figli di don Bosco che vivevano con i giovani affidati loro dal tribunale penale. Vivendo e lavorando con loro, li osservavo nella loro vita fraterna in comunità. I salesiani erano proprio dei padri per questi poveri ragazzi. Passando del tempo con i più piccoli e più poveri mi raccontavano le loro storie, le loro esperienze, mi narravano delle loro famiglie, del loro disagio e dello stato di abbandono in cui si trovavano. Pregando e riflettendo su queste storie iniziava a nascere in me il desiderio di stare tutta la vita con don Bosco per spendere il mio tempo con i giovani che nella vita erano stati meno fortunati.

“L’Urna di don Bosco è passata nel Carcere Minorile, qualche anno fa. Lui ha deciso di rimanerci, inviando un suo figlio, piccolo sì, ma che cerca di aprire i cuori come ha fatto lui”

Come la tua famiglia vive questa scelta?
La scelta della vita consacrata e del mio desiderio di iniziare un percorso di discernimento l’ho condivisa subito e non solo con i miei genitori. Anche a mio fratello Gaetano e mia sorella Martina ho consegnato questo dono che ho ricevuto dal Buon Dio. I miei fratelli sono più piccoli di qualche anno ma mi hanno sempre accompagnato con la loro presenza discreta e al contempo vicina durante la mia prima formazione e durante i percorsi di studio affrontati verso il Sacerdozio ministeriale. Fortunatamente il paese da cui provengo – Riesi – è una cittadina che era ed è totalmente immersa nello spirito salesiano. Infatti tutti i giovani riesini conoscono o la scuola o l’oratorio in stile salesiano a motivo della presenza delle Figlie di Maria Ausiliatrice (alle quali devo tanto) e ai figli di don Bosco. Ancora oggi so che posso contare sui miei genitori, su mio fratello e su mia sorella che da lontano mi sono vicini nel momento di prendere decisioni importanti. Hanno accettato di buon cuore questa missione ricevuta poiché anche per loro la casa di don Bosco fa parte del loro cuore: si trovano bene in quegli spazi, costruendo relazioni giorno dopo giorno.

Perché proprio salesiano?
Come vi dicevo, vengo da un paese in provincia di Caltanissetta, nel cuore della Sicilia: Riesi. Il paese conta – ad oggi – tre parrocchie salesiane su quattro e fino a qualche anno fa (2002) presenti sul territorio riesino c’erano anche le Figlie di Maria Ausiliatrice. Dal mio canto sono stato sempre a contatto con i Padri Salesiani che gestivano le attività ordinarie oltre a quelle estive. In particolar modo ricordo con affetto e gratitudine i periodi estivi in cui si organizzavano i GrEst e dopodiché inviavano me ed altri miei compagni a vivere esperienze forti di volontariato e di formazione sul campo in altre comunità salesiane in Sicilia. Al “Don Bosco”, così chiamavamo i locali del centro giovanile parrocchiale, passavo il mio tempo; dopo lo studio iniziavo a respirare aria pulita: aria salesiana che dava ossigeno ai miei polmoni fino a far riempire il mio cuore di don Bosco.

Quali sono state le tue esperienze in Congregazione?
Le esperienze più significative negli anni di formazione e dopo il sacerdozio sono state: quella di lavorare nei quartieri a rischio, in quelli disagiati; in particolar modo ho vissuto in periferia della città di Messina nel quartiere “Giostra”. Dov’è presente ancora oggi un grande Oratorio. Anni dopo ho vissuto nella periferia palermitana nell’opera del “Gesù Adolescente” dove mi applicavo sia nella Scuola Professionale sia in Oratorio. Ho avuto modo di conoscere anche l’ambiente della provincia di Messina: a Barcellona Pozzo di Gotto infatti ho percepito ancora più forte la chiamata del Signore con i giovani a rischio vivendo il mio apostolato insegnando IRC nella Scuola Media del paese e vivendo in Oratorio nei pomeriggi. In questo ultimo periodo, ma anche in tempi passati, sono stato inviato dai miei superiori nella bella Catania; oggi mi trovo infatti a contatto con i minori immigrati nell’opera della Colonia “don Bosco”, sono parroco nel quartiere San Cristoforo nella Parrocchia “Maria SS. della Salette” e cappellano del Carcere Minorile di Catania “Bicocca”.

Perché sei finito in carcere?
Tutto ha inizio una sera del mese di aprile 2015: passeggiavo nel cortile dell’Oratorio del Cibali (sede dell’Ispettoria della Sicilia e Tunisia), ad un tratto incontro l’ispettore don Pippo Ruta che fra un argomento ed un altro mi propone questa esperienza forte dicendomi: «Ti va di andare in carcere?» a bruciapelo risposi: «Ed io cosa ho fatto di male per finire in carcere?». Don Pippo comprende la battuta, sorride ed inizia a spiegare che il Vescovo dell’Arcidiocesi di Catania ha richiesto la presenza dei figli di don Bosco all’interno dell’istituzione carceraria per i minori. Don Ruta voleva scommettere su questa nuova frontiera di lavoro a contatto con i ragazzi reclusi proprio come ha fatto il nostro Fondatore. Dopo un po’ di preghiera e discernimento ho accettato questa proposta sul serio. Lavorare all’Istituto per Minori di Bicocca mi avrebbe dato vita in due maniere: sarei stato cappellano non solo dei detenuti ma anche padre degli educatori, degli agenti di polizia con i quali mi sarei relazionato e di tutti coloro che lavorano all’interno di questo istituto. Ed inoltre ho detto il mio sì, in maniera decisa, per accogliere l’invito di papa Francesco che nei suoi interventi parla spesso di uscire dalle sagrestie e andare nelle periferie: per vivere in mezzo al gregge ed avere lo stesso odore delle pecorelle, andarle a cercare quando si perdono e far festa dopo averle trovate. Altresì vedo questa obbedienza come un regalo di don Bosco per il Bicentenario della sua nascita; infatti con il passaggio dell’Urna di don Bosco nel Carcere Minorile – qualche anno fa – ha deciso di rimanerci, inviando un suo figlio, piccolo sì, ma che cerca di aprire il cuore come ha fatto lui. Ringrazio i miei confratelli, tutti i giovani e le persone che pregano per me perché mi sostengono ogni giorno e mi fanno sentire l’affetto della grande Famiglia Salesiana. Molti i volontari che con me hanno possibilità di entrare dietro le sbarre per servire chi non ha da contraccambiare, per me sono fonte di aiuto, di sostegno facendo ciò che si può fare: questo ci rende felici. In carcere ogni sabato viviamo la Celebrazione Eucaristica e durante la settimana personalmente li ascolto e li accompagno.

Come sono i giovani che conosci?
Stare con i giovani che sono ospiti del Penitenziario è un’esperienza di forte crescita personale, un’esperienza che apre il cuore e che ti insegna a non giudicare chi ha sbagliato o chi ha commesso un errore, ci aiuta infatti ad amare l’umanità così com’è nella sua vulnerabilità. Finora mi sono passati davanti gli occhi tanti volti che apparentemente sono felici, a volte sicuri di ciò che han fatto, alcuni li trovo ottimisti ma scopro conoscendo quelle anime che dietro il loro volto si nascondono rabbia e dolore, stanchezza e sfiducia. Il loro volto esprime bisogno di affetto, necessità di qualcuno che gli possa stare accanto e che li ascolti, di qualcuno che non abbia paura di confrontarsi con loro e di persone capaci di accompagnarli nel percorso difficile ma quanto mai educante. Credo che siano ragazzi che hanno bisogno di amore perché non l’hanno conosciuto prima, non l’hanno sperimentato nel loro nucleo familiare. Quando nelle mattinate entro all’interno della struttura carceraria vedo che riescono ad accogliermi come se mi conoscessero da tanto tempo. Ho riscoperto sulla mia pelle che solo passando del tempo con loro potranno fidarsi di te. E sono giovani che quando scoprono le loro ferite mostrano tutto: debolezze e paure; alcuni anche il loro pentimento, i loro sbagli. Mi è capitato che dopo un bel po’ di tempo ci si rincontra per strada e si legge nei loro volti un cambiamento. Quella Resurrezione che nella loro vita è fantastica: volti prima tristi si trasfigurano in volti luminosi di gioia e di voglia di riscatto rispetto a quella società che li ha incastrati con le brutte compagnie. Non per tutti è così semplice il miglioramento, qualche fallimento educativo l’ho vissuto anche e sulla mia pelle! Io però continuo a lavorare affinché un futuro migliore possa essere costruito da quelle mani che una volta in manette desiderano cambiare vita.

“Volti prima tristi si trasfigurano in volti luminosi di gioia e di voglia di riscatto rispetto a quella società che li ha incastrati con le brutte compagnie”

È ancora possibile parlare di Dio e di Chiesa?
All’interno del Carcere i giovani minorenni reclusi vengono da città e da contesti diversi. Qualcuno ha frequentato il catechismo quando era piccolo nelle parrocchie di residenza ma poi, come succede a tanti, dopo la comunione non ha più continuato il cammino mistagogico di Catechesi non vivendo così con profondità la propria fede. Altri non hanno mai frequentato gli ambienti di chiesa, non hanno mai vissuto gli incontri di Catechesi e non si sono mai comunicati e non hanno ricevuto il Sacramento della Cresima. In pochi però non sono mai entrati in chiesa; i più però non sanno a quale parrocchia fare riferimento una volta usciti da quell’istituto. E come nella Torino dell’800, cerco di essere un punto di riferimento alla don Bosco. È possibile parlare di Dio e soprattutto lo sforzo è quello di far loro capire che Dio è Padre. Padre che è Buono, che è Misericordia. Difficile è comunicare l’idea della paternità a coloro che con il padre non hanno un buon rapporto o che non l’hanno mai conosciuto o dal quale sono stati abbandonati. Ripeto spesso alle loro orecchie: “Dio non abbandona i suoi figli!”.

Come vedi il futuro della congregazione salesiana?
Sono contento di appartenere alla congregazione salesiana, di essere un figlio di don Bosco. Nutro speranza positiva per il futuro della nostra congregazione, nella casa di don Bosco c’è posto per tutti: casa per molti e madre per tutti come la Chiesa. Vivo in una casa che cresce anno dopo anno accogliendo i giovani in discernimento vocazionale che hanno accanto giovani confratelli tirocinanti e vedo che ci sono confratelli motivati. I giovani che entrano nella nostra Comunità ci osservano e si mettono in gioco, il nostro stile diventa la loro vita, i nostri ambienti educativi diventano la loro casa. Mi basta guardare come i confratelli che il Signore mi ha donato spendano il loro tempo e le loro energie nei settori dove ci sono ragazzi poveri e abbandonati e questo mi riempie il cuore. I salesiani hanno davvero posto ovunque, lo Spirito Salesiano si declina in ambienti diversi e disparati: dalle scuole alle parrocchie, dagli oratori ai centri sociali, dalle comunità di minori non accompagnati alle carceri, dai centri sociali alle missioni ad gentes. Dice bene quel brano: Dio gli ha donato un cuore grande come le sabbie del mare, vuole donarlo anche a noi oggi.

(Articolo tratto dal Bollettino Salesiano – Febbraio 2018)