È consuetudine, al Don bosco Ranchibile, dedicare, all’inizio dell’anno, una giornata di ritiro spirituale. Ogni classe, a turno, si reca in una chiesa della città per confrontarsi su temi di attualità e di fede che coinvolgono noi giovani.
Venerdì, 29 ottobre, è stato il turno della mia classe. Eravamo contenti: chi non sarebbe felice di saltare un giorno di scuola per stare insieme, risultando comunque presente? E, cosa per me ancora più importante, dopo quasi due mesi dall’inizio della scuola, gli alunni del 3º classico A e B, che fino allo scorso anno condividevano le prime sette ore del giorno tra le stesse mura in un’unica classe, si sono seduti un’altra volta insieme e hanno appoggiato le borse e gli zaini in banchi affiancati.
Appuntamento alle 7:45 nel cortile della scuola. Chiaramente chi, come me, non è abituato ad arrivare puntuale, ha fatto aspettare un po’ i compagni. L’autobus è partito intorno alle 8:20.
La prima sensazione, piacevole e familiare, che ho provato è stata quella della complicità, mi aspettavo imbarazzo, distacco, o sguardi incerti.
Mi dicevo: “Che faccio? lo saluto, o evito?”, invece ci siamo seduti tutti vicini e abbiamo parlato e scherzato, scambiandoci sguardi calorosi che credo valgano più di centinaia di parole.
Eravamo tutti intimoriti all’idea di recarci a Brancaccio, zona che chiaramente non siamo abituati a frequentare perché distante dalla nostra realtà e dai nostri spazi o dai nostri luoghi di ritrovo.
Io, che abito in centro e vivo a Palermo da circa due anni, ero spaventata e condizionata dalle parole dei miei amici. “Sta attenta”, “Non portare borse o cinture”, “Resta accanto a me”, “Se qualcuno ti si avvicina troppo, corri”, “Non rimanere sola” … ed altre espressioni simili.
Queste parole mi hanno allarmata. Inizialmente ho reputato avventata la decisione di farci visitare una realtà così diversa dalla nostra. Solo dopo ho capito, e ho apprezzato, il motivo che ha spinto la scuola ad organizzare il ritiro proprio lì. Lo scopo era esattamente di farci aprire gli occhi e per capire che la vita non si ferma alle serate del sabato sera e alle borse firmate che i nostri genitori, lavorando duramente, riescono a regalarci.
La realtà non si ferma al Don Bosco o al ristretto gruppo di ragazzi che, bene o male, si conoscono per amicizie comuni o per sentito dire. Palermo è una grande città, il mondo è un pianeta immenso e ogni angolo di strada è diverso dall’altro, ma non per questo è meno bello o inadeguato, solo diverso. “Il mondo è bello perché è vario”, certo. Ma non si può comprendere la bellezza della terra se non vi si conosce la varietà. Il “diverso” è solo distante da noi, non sbagliato o peggiore, né giusto o migliore, solo diverso.
Sempre di più mi rendo conto che siamo troppo abituati a vivere la realtà che viviamo come in una bolla di vetro: si, abbiamo i nostri problemi, malanni, difficoltà, ma siamo comunque più fortunati di altri che vivono in quartieri degradati. Con questo non sto dicendo che il male non esista nelle zone centrali, chissà, anche al Don Bosco stesso, magari persino in famiglia. Forse, un giorno, persino io potrei scegliere di allontanarmi dai valori che oggi reputo scontati e darmi alla malavita, ma io avrei una scelta. Anche costretta dalle circostanze, conoscerei l’altra parte del mondo, saprei di avere un’altra possibilità.
Alla luce di ciò, apprezzo che la scuola mi abbia portata a Brancaccio perché i ragazzi che vivono in quella zona, a differenza mia, non conoscono la “scelta”. A tal proposito, proprio durante il ritiro spirituale il parroco ci ha parlato di Don Pino Puglisi, martire di mafia, ucciso sotto casa sua perché colpevole di presentare ai giovani del quartiere una vita diversa.
Un personaggio scomodo faceva troppo rumore e alla mafia non piace il rumore, la mafia vuole il silenzio perché è nel silenzio che siamo deboli e, quindi, influenzabili.
Don Pino ha vissuto la sua vita a Brancaccio, nato e morto nella casa dei genitori. Si tratta di una casa popolare, piccola e accogliente, dove don Pino ha vissuto in compagnia dei suoi tre fratelli.
Don Pino era amato e ascoltato ed era una voce in un mondo di silenzio, un vocabolario in una realtà di parole non dette. Un libro aperto in mezzo a diari con lucchetti la quale chiave era stata nascosta o persino buttata.
Con i miei compagni siamo entrati in chiesa insieme a don Emanuele e il professore Casano, accompagnatori in questa breve trasferta, che ci hanno mostrato delle immagini di attualità che, a prima vista, sembrava che non vi fosse conseguenzialità tra esse. Solo dopo che ognuno di noi ha descritto e commentato un’immagine, abbiamo avuto la consapevolezza che qualcosa collegava ogni immagine all’altra: il silenzio. Abbiamo visto una foto del Parlamento, e non sono mancati i commenti sulla vergognosa esibizione dei senatori dopo aver ignorato la richiesta della comunità LGBTQ+ di avere diritti e protezioni che, ad oggi, non hanno. Abbiamo guardato le foto dei medici che si stanno occupando della pandemia. Abbiamo visto immagini di boschi bruciati, ghiacciai sciolti, barconi stracolmi di anime e speranza e bambini denutriti.
Il silenzio li ha uccisi. Il silenzio ci rovinerà. Il silenzio sarà la fine. Fin quando le parole saranno solo parole e molte non saranno neanche dette, vivremo nel silenzio. Spesso si fa finta di non conoscere la realtà perché ci spaventa o, magari, perché è una realtà scomoda.
Don Pino Puglisi non solo ha accettato la realtà, ha anche sacrificato la sua vita per cambiarla e migliorarla. Purtroppo, è stato zittito troppo presto affinché Brancaccio cambiasse, di certo ha migliorato il quartiere e ha salvato e cambiato la vita di molti. Non di tutti, non ne ha avuto modo, ma di molti.
Dopo aver trascorso parte della mattina in chiesa per il momento di riflessione, a cui nessuno è rimasto insensibile, abbiamo raccolto gli zaini e abbiamo raggiunto la casa, ormai museo, dove ha vissuto Don Pino. Ad accoglierci, due ragazzi molto simpatici e una donna dolcissima: la presidentessa della società e le guide del servizio civile. Attorno alla casa, tre murales realizzati da un artista che decora le vie di Palermo da qualche mese ormai: Il volto di Don Pino da giovane, un fiammifero spento e fumante e, sul muro accanto dall’altra parte della strada, un fuoco ardente.
Don Pino era fuoco, lo hanno spento, ma ha generato una fiamma più grande: il suo ricordo.
Don Pino è stato ucciso, ma la sua memoria resta e tutto ciò che è riuscito a realizzare, anche se sono sicura che avrebbe fatto molto di più se ne avesse avuto il tempo, ma lui esiste ancora.
Esiste l’oratorio, l’associazione del sacro cuore, il centro accoglienza e la scuola che, se pur dopo più di dieci anni, ha portato a compimento. Don Pino era già morto quando la scuola media ha aperto, ciò dimostra che non è stato tutto invano. Che la sua preziosa vita è stato un prezzo, anche se troppo caro, da pagare per garantire una realtà diversa.
Adesso alcuni hanno una scelta e spesso scelgono Don Pino. Purtroppo, tanti altri scelgono ancora il silenzio. Mi piace pensare che sia solo perché non hanno ascoltato, e quindi compreso, la parola ed il suo immenso potere. A tutti loro, auguro di trovare un “Don Pino” nella loro vita e a chi, come me, lo ha già scelto auguro di non chiudere la bocca mai, anzi di urlare sempre di più.
Come Martina e Christian, che si spendono per gli altri e portano la voce di Don Pino in giro per le strade. Come Don Gabriele, il vescovo della chiesa del Sacro Cuore, che sarebbe pronto a morire come il vescovo che lo ha preceduto.Come la presidentessa che tiene vivo il suo ricordo occupandosi dell’associazione. Come tutti quei ragazzi che, ancora oggi, credono e scelgono Don Pino.
Abbiamo anche visto le foto di Papa Francesco che, con umiltà e rispetto, ha visitato la casa-museo e ha anche lasciato un commento a chiunque avrebbe ricordato Don Pino come lui.
Il Beato, come ho già detto, abitava insieme al padre, dopo la dipartita della madre, e lì vi trasferì 6000 libri. Li aveva letti tutti. La stanza più bella, a parer mio, è la camera da letto. Non per la stanza in sè, bensì per il libro che quella mattina aveva lasciato sul comodino. Sottolineata in giallo, come faccio io quando leggo frasi che mi colpiscono, una frase che racconta la morte per mafia di un prete che sapeva che sarebbe morto e sapeva che la sua morte non sarebbe stata solo colpa della mafia, ma di tutti coloro i quali non hanno impedito la sua morte.
Don Pino è stato abbandonato dalle autorità e dallo stato. È morto solo, eppure amato e sostenuto. Le persone che lo amavano non lo lasciarono da solo all’epoca e non lo lasciano soli neanche ora. A questo proposito, abbiamo avuto il piacere di conoscere la signora che ha trovato il corpo e ci ha raccontato di Don Pino nel quotidiano: aveva le scarpe sempre rotte, e non perché non potesse comprarne altre, ma perché sapeva che ogni centesimo pagato per sé sarebbe venuto meno al ragazzo affamato per strada che si accontenta di spacciare pur di non morire di fame. Don Pino era sempre indaffarato e spesso i suoi vicini erano tanti gentili da offrirgli un piatto caldo ad ogni pasto. Lui è morto per la sua gente e la sua gente continua a vivere in sua memoria.
Don Pino amava i ragazzi e ha dato la sua vita per loro, e lo Stato? Dov’era lo Stato, quando Don Pino veniva minacciato? Dov’erano le Forze dell’Ordine quando Don Pino chiedeva di essere ascoltato? Quando chiedeva aiuto? Quando chiedeva di essere protetto?
Il mondo ha bisogno di più “Don Pino” in giro. Ormai, come fosse un’allegoria, Don Pino è sinonimo di altruismo. È un padre, una guida, un Virgilio per Dante, un Chirone per Patroclo, un Agamennone per Menelao, un Peleo per Achille.
Don Pino è la voce che guida alla luce attraverso il tunnel. È il sacrificio, è l’amore verso il prossimo, è l’emblema dell’altruismo ed è bontà, generosità, famiglia.
Auguro a chiunque di trovare un Don Pino. A chi lo trova, di non perderlo. Auguro a chi sente la sua voce di ascoltarla sempre e a chi ha qualcosa da dire, che lo dica senza timore.
Il silenzio è mafia, il rumore è Don Pino.