Pubblichiamo per intero l’intervento di Don Pippo Ruta su don Rocco Rindone, l’intervento è stato pubblicato giorno 27 aprile 2018 in occasione dell’evento in memoria di Don Rocco a San Gregorio.
Il 30 marzo scorso, ricorrevano trent’anni dalla morte del salesiano sacerdote Don Rocco Rindone che ha vissuto e operato nelle seguenti opere salesiane: San Gregorio di Catania, Torino Crocetta, UPS Roma, Catania Cibali, Caltanissetta, Palermo Santa Chiara, Messina San Tommaso. La sera del 27 aprile 2018, presso l’Opera di San Gregorio di Catania si è tenuta una partecipata commemorazione del confratello che ha lasciato ovunque un ricordo incancellabile. A lui è stata intitolata la Sala Conferenze (primo piano ex studio dei ragazzi). Il testo che segue è una riflessione offerta alle comunità di Sicilia e Tunisia in memoria dell’indimenticabile Don Rocco.
È stato provvidenziale, e non lo reputo un caso, aver incrociato nei giorni scorsi la lettura della recentissima Esortazione apostolica di Papa Francesco Gaudete et exultate (19 marzo 2018) e la lettura di alcuni scritti di Don Rocco Rindone[1] e le testimonianze raccolte su di lui.
Mi ha colpito particolarmente l’assonanza dell’espressione del Pontefice, Dio «ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» (n.1), con alcuni stralci del suo diario e dei documenti rinvenuti.
Don Rocco fa parte di quella schiera dei “santi della porta accanto” di cui parla Papa Francesco, testimoni feriali di ieri e di oggi (cfr. nn. 6-9) che sostengono il cammino della vita di tanti.
Ho avuto modo di misurare la distanza tra la statura spirituale di questo confratello morto trent’anni fa, ad appena 49 anni, e la mia mediocrità, provando un senso di vergogna, un misto di invidia e di rammarico nei confronti di uno che ho appena lambito e con cui ho avuto pochi, anche se intensi, contatti. Nonostante ciò, oggi più di allora, la sua testimonianza riesce a provocarmi e a spiazzarmi, a insegnare qualcosa di grande a me e ad altri, a “lasciare il segno”. È doveroso, personalmente e a nome dei confratelli salesiani di Sicilia, rendergli onore ed esprimere gratitudine a Dio per la sua vita e la sua azione che rimangono indelebili nel cuore di tanti.
Senza alcuna pretesa e con la piena consapevolezza di trovarmi di fronte al mistero della santità di Dio comunicata all’uomo, mi avventuro a tracciare alcuni lineamenti dell’esperienza profondamente umana, profondamente divina, come lo fu quella del Signore Gesù con il suo mistero di incarnazione e come lo fu, di riflesso, quella di Don Bosco.
1. Radicato nel Cristo crocifisso
Il primo tratto che affiorava al solo guardarlo era il Crocifisso. A primo acchito l’impressione non era piacevole e bella, come narra un confratello durante il suo tirocinio salesiano a Palermo, prova palese che le apparenze ingannano e non bisogna fermarsi ad esse:
«Al primo incontro (e me ne vergogno moltissimo) ho avuto l’impressione di avere davanti un barbone. Capelli e barba lunghi, jeans scoloriti e maglietta, ai piedi un paio di vecchi zoccoli. Mi sono subito allarmato come il mio Direttore introducesse alla tavola dei confratelli una tale persona! Ma il mio stupore fu grande quando mi accorsi che questo “barbone” parlava con tutti, a tutti aveva qualcosa da dire; e lo sbigottimento divenne più grande quando sentii che dava del “tu” ad alcuni confratelli. Allora ho pensato: “Forse non è la prima volta che costui è invitato a pranzo, qui, al Gesù Adolescente. Solo dopo che andò via sulla sua bicicletta, ho saputo che quello era un mio confratello, Don Rocco Rindone che tanto bene mi avrebbe fatto in futuro» (C.B., p. 76).
Ma chi aveva la fortuna e la tenacia di scavare in profondità, non era difficile scorgere l’identificazione con il Crocifisso. Nel suo diario un’espressione è l’equivalente dei detti paolini: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.» (Gal 2,20), «Per me vivere è Cristo» (Fil 1,21). Così, ad esempio, scrive nel retro di una foto, l’11 novembre, festeggiando il suo genetliaco tra un pizzico di ironia e una linda professione di fede:
«Buon compleanno vecchiotto! Ho guardato il mio Signore crocefisso, l’ho contemplato con amore, l’ho appoggiato sul mio cuore. Allora: ho scoperto che l’umiltà è Lui, l’obbedienza è Lui, la mortificazione è Lui, la sofferenza è Lui, e ciò che la mia natura respinge, è Lui. Ora una trasformazione si è compiuta dentro di me… Tutto mi è sembrato Divino. Potenza di Dio!» (p.11).
Questa specie di folgorazione “scandalo” e “stoltezza” dal punto di vista umano, diventa sapienza insondabile e divina (cfr. 1Cor 1,23), diventa atteggiamento fondamentale e stile di vita evangelica, sintetizzati nel seguente passo del suo diario:
«Il chicco di frumento nasce dove cade, senza lamentarsi. Fare bene e con il massimo impegno tutto… trattando amabilmente tutti… attenzione alle lamentele… Vedere dei punti positivi in ogni cosa. Incoraggiare e non criticare se non per costruire» (Diario, 7 luglio 1983, p.18).
Questa forte e intensa relazione con il Crocifisso Risorto ha prodotto un’assimilazione tale da manifestarsi nei piccoli gesti della vita quotidiana ma con un significato incommensurabile, perché riflesso del Dio che ci ha amati per primo (cfr. 1Gv 4,19), che «fa sorgere il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi, fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45) e che non si arrende mai di fronte a freddezze, tradimenti e all’abbandono dei suoi figli:
«A riguardo della malattia di Rocco ricordo che quando egli veniva a Palermo lo vedevamo zoppicare e colmo di dolori atroci; ma se lo si chiamava, lui accorreva. Ricordo che quando è morto Natalino (ucciso da un altro ubriacone), fu proprio Rocco a fare il riconoscimento del cadavere. Pur trascinandosi su una gamba, volle vedere una persona della Comunità che era stata operata. Io le chiesi: “Perché fai tutto questo? Non ti sembra troppo trascinarsi su una gamba per andare a trovare un malato?”. Rocco rispose con la sua voce sempre tranquilla: “Lo faccio per amore!”. E sorrise sereno» (P.L., p.53).
2. Interamente di Dio e dedito al suo Regno
«Pedara, 24 maggio 1956.
Dopo aver deciso di farmi santo, ho scelto dopo molta riflessione la via del sacerdozio per arrivare facilmente alla meta prefissami. Dopo aver conosciuto i benefici e le privazioni che mi offre la vita del Sacerdozio, liberamente e col consiglio del Confessore ordinario chiedo di essere ammesso al Noviziato come Chierico per appartenere alla Pia Società Salesiana
Rindone Rocco»[2] (p.13).
Sono queste le parole della domanda per l’ammissione al noviziato che esprimono l’orientamento di una vita, segnata dalla santità di Dio e che, per Sua grazia, è divenuta contagio per quanti lo hanno conosciuto e incontrato. Nell’espressione che segue sono sintetizzati i motivi e le dimensioni principali di questo desiderio di santità di “alto profilo”:
«Decidersi una buona volta: “Se non mi faccio santo ho sbagliato la mia vita!”. Molta umiltà e continua ricerca della volontà di Dio» (Diario, 9 maggio 1969, p.15).
«Siamo chiamati a santificarci; non dobbiamo rimanere degli uomini virtuosi ma dobbiamo essere dei santi. Il mondo è stanco di vedere preti indaffarati: vuol vedere preti pieni e rivestiti del soprannaturale. Noi ci facciamo santi solo nella comunità; la nostra è una santità comunitaria. Non si può dare una semplice coabitazione, ma una comunità operante e vivificante e vivificata dall’amore vicendevole. Maria Ausiliatrice ci dia gli aiuti necessari» (Diario, 8 maggio 1965, pp.14-15).
Sembra di ascoltare Papa Francesco quando scrive nel suo Diario:
«Lotta alla mediocrità: non è superbia voler essere grande nella santità, nell’eroismo; non essere pusillanimi; vincere la pigrizia e noi stessi» (Diario, 24 novembre 1966, p.15).
Quanto esigeva da sé lo richiedeva a quanti dirigeva e accompagnava spiritualmente, come afferma M. G.:
«Nella direzione spirituale era attentissimo. Il suo bersaglio da abbattere era la mediocrità. Chi conosce Dio non può essere un mediocre; e la sua vita ne è stata una dimostrazione perfetta. Quando conversavamo era quasi sempre ironico; era difficile distinguere se stesse sentenziando o scherzando; ma quando si era in colloquio intimo, o in confessione, il suo raccoglimento era totale: lui c’era, ti parlava, ti ascoltava, ma era come assente; ed io avevo la certezza che stavo confessando le mie colpe a Dio» (p. 88).
Fa eco anche una consorella Figlia di Maria Ausiliatrice che ricorda:
«Mi stupiva il coraggio con cui snidava e contestava atteggiamenti di comodo insinuati nella vita religiosa. Mi diceva che egli, personalmente, non riusciva a capire come un religioso potesse vivere nell’agiatezza e affannarsi per mille cose inutili… Ripeteva con insistenza che la vita religiosa o si vive con spirito missionario o non ha senso» (pp. 9-10).
Si capisce allora come in un uomo così attivo e operativo a favore dei più poveri si nascondesse un profondo desiderio e bisogno di Dio espresso nella preghiera frequente e profonda, superando la tentazione dell’attivismo del “fare per fare” e mantenendo il contatto con l’Unico che fa crescere (cfr. 1Cor 3,7), che edifica la casa e costruisce la città degli uomini (cfr. Sal 126,1). Quanto esigeva dagli altri, lo esigeva innanzitutto da sé anche nella preghiera:
«Decidere per una scuola di preghiera: S. Chiara centro di animazione spirituale nel quartiere e fuori; però è necessario che io intensifichi la mia preghiera o meglio chieda il dono della preghiera» (Diario, 21 agosto 1977, p.22).
Ha lasciato scritto nel suo Diario:
«Pensare che da me posso fare molto poco e che con Gesù posso fare molto, e che la santità è sempre possibile» (Diario, 4 novembre 1965, p.15).
Ecco perché a un collaboratore si permetteva di affermare in modo categorico: «Tu sarai nessuno, se non impari a pregare» (cfr. p. 7).
3. Tutto dei giovani, tutto dei poveri
Don Rocco era interamente di Dio, ma anche tutto dei giovani come Don Bosco:
«Non lamentarsi… Fare ogni cosa per la maggior gloria di Dio. L. non è amato da me, come tutti gli altri che “ospito, non accolgo”… Per cui non converrebbe non accogliere mai nessuno se non si “ama” come Gesù (cfr. San Vincenzo de’ Paoli). Accolgo solo per non tener vuoto un locale? Sono i ragazzi e i giovani!… Bisogna spendere tutto per essi!» (Diario, 15 febbraio 1982, p.20).
Era anche tutto dei poveri come il Cristo:
«Capace di giocare da bambino con i bambini, che amava tenere in braccio durante le celebrazioni della Comunità, di parlare da dotto con i dotti, di accogliere da povero i poveri di ogni tipo e razza, dall’alcoolizzato al drogato, all’handicappato, all’orfano, alla vedova, allo sfrattato, al disoccupato, alla prostituta, al dimesso dal carcere o dal manicomio: amico di tutti senza “ricattare” nessuno in nome di quest’amicizia neanche per riempire la Chiesa di Domenica» (“Giglio delle convalli”, p.59).
Riflesso di una Chiesa “serva dell’umanità” e “povera per i poveri”, egli ha visualizzato con mille gesti la lavanda dei piedi di Papa Francesco e lo stile del grembiule richiamato da Don Tonino Bello. Ecco una delle testimonianze in tal senso:
«Un esempio, che veramente mi ha formato e mi ha lasciato un segno, voglio descriverlo perché desidererei che gli altri ne venissero a conoscenza. Vicino a S. Chiara viveva una vecchietta novantenne che noi chiamavamo “la Signora Antonietta”. Questa poverina viveva in una casa lurida e degradata, piena di insetti e simili; non aveva nessuno ed era veramente sola. Per sopravvivere chiedeva ai passanti qualcosa da mangiare o qualche soldo. Quando D. Rocco arrivò a Palermo cominciò ad occuparsi anche di lei, ma non nel senso che di solito intendiamo: occuparsi veramente come se fosse sua madre o sua nonna. La cosa che più mi ha segnato e che sempre ricordo è che quando, dopo ore di convincimento, la portava a S. Chiara e la lavava, la spulciava, spidocchiava e rivestiva. Mala cosa meravigliosa in tutto questo è che D. Rocco ci insegnò ad amare (così come lui amava) questa vecchia; e pian piano anche noi le facevamo il bagno, la spulciavamo etc. con amore quasi di nipoti. Questo è solo un esempio di come riusciva ad amare gli emarginati, i poveri, gli infelici, poiché il suo periodo a S. Chiara fu pieno di questi fatti (Salvatore Bosco, Natalino, Nicolino, Maria, Rocchetto, etc…)» (M.L.R., p. 51).
Ancorato alla Parola di Dio, al Vangelo, c’è un brano particolarmente caro a Don Rocco e che sta a cuore anche a Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia (cfr. nn. 90 e ss.). Così racconta T.R.:
«Ricordo un episodio che mi rimase profondamente scolpito nella mente e nel cuore. Una mattina di un giorno come tanti altri eravamo riuniti per la “meditazione comunitaria”, D. Rocco aprì la Sacra Scrittura e prese a leggere il passo di S. Paolo 1 Cor 13: “Se anche parlassi le lingue degli uomini… ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è…”. A questo punto scendevano dai suoi profondi occhi gocce di calde lacrime… di amore. Capii che l’essenza di tutto è l’AMORE» (T.R., p. 81).
Parlando ai giovani che gremivano il Palazzetto dello Sport di Messina, Don Rocco concluse con queste parole la descrizione dell’esperienza decennale a Ballarò (1972-1982):
«Nella Missione-Santa Chiara del bene se ne è fatto, anche se non abbiamo potuto cambiare nessuna delle terribili situazioni di quei poveri giovani; ma ci resta sempre viva nel cuore la gioia di averli amati» (p. 12).
Di lui “povero tra i poveri” così è stato scritto:
«Rocco era il padre dei poveri; il suo amore non aveva misura né distinzioni. Ricordo che quando si mangiava, lui si serviva per ultimo e spesso gli rimaneva poco. Una volta gli dissi: “Rocco, tu mangi poco!”. Egli mi rispose: “Io l’appetito ce l’ho! posso mangiare 10 panini, 5 panini, un panino o niente, se qualche altro deve ancora mangiare!”» (P.L., pp. 52-53).
Il Card. Salvatore Pappalardo lo conobbe nel pieno dell’attività tra i poveri. Così riassume l’esperienza di Don Rocco dopo aver appreso la sua nascita al cielo:
«Ha lavorato tanto in questa Chiesa palermitana occupandosi dei più poveri e dei più abbandonati, facendo del Santa Chiara un centro veramente provvidenziale. Sulla sua scia altri hanno lavorato e lavorano: sono presenze silenziose ma efficaci, la cui importanza si nota solo dove e quando mancano. So che D. Rocco ha lavorato sino alla fine, saldando l’operosità della vita con il premio del cielo» (p. 33).
Una voce laica è quella del giornalista è Rosario Giué che nell’articolo commemorativo a vent’anni della morte dal titolo Il mistico ribelle dell’Albergheria, apparso su “Repubblica” il 9 aprile 2008[3] così tipicizza l’azione e l’identità di questo singolare salesiano prete:
«Don Rocco Rindone nonostante questi atteggiamenti di contestazione non era un agitatore sociale. Per lui l’emancipazione sociale era inevitabilmente legata all’evangelizzazione, al Vangelo. E dietro le sue espressioni “spregiudicate”, che potevano scandalizzare, c’era la ricerca sincera della verità e della trasparenza. Si può dire che fosse un contemplativo ma senza prescindere dalla lotta per il riscatto degli ultimi. Per questo, per un giorno intero della settimana scompariva per ritirarsi in un deserto di preghiera e trovare nuove energie per andare avanti nelle difficoltà. Profondamente umano, con un contagioso interesse per la natura, su molti giovani esercitava un forte fascino ed alcuni si erano fatti l’idea che fosse un mezzo rivoluzionario. Ma non lo era. Era sostanzialmente un mistico, ma un mistico che non si gira dall’altra parte davanti ai bisogni della sua gente. Per questo il Centro Santa Chiara in quel periodo diventò un luogo di speranze: per barboni, per tossicodipendenti, per omosessuali, per obiettori di coscienza (allora mal visti), per donne e per uomini, insomma per tutte le persone sole dei quali nessuno si curava».
4. Uomo del futuro, giovane profeta
In una trasmissione televisiva di tanti anni fa, rimasi impressionato da un’espressione di Adriana Zarri sulla santità: «Si diventa santi per distrazione»[4]. Al di là del primo impatto, c’è del vero in quanto non è la forza di concentrazione o lo sforzo umano a generare i santi, bensì la fiducia nel “tre volte Santo” e nel lasciarsi plasmare dal suo Spirito che forma “amici di Dio e profeti” (cfr. Sap 7,27). La seguente testimonianza su Don Rocco è sulla stessa lunghezza d’onda:
«Una frase in particolare mi ha folgorato, scritta pochi giorni prima di morire: “Essere segno senza volerlo”. Per dirla in maniera convenzionale, in quella frase c’è tutto Rocco. “Senza volerlo” è forse, a pensarci bene, l’unica maniera di essere veramente segno; non “senza averlo voluto”, che sarebbe indice in negativo di una sorte di decisionismo dello spirito, e nemmeno “senza saperlo”, quasi una beata e determinata incoscienza, ma “senza volerlo”, cioè sapendolo, senza che la consapevolezza implichi la determinazione a comportarsi e in definitiva ad atteggiarsi da testimone, lasciando bensì che siano gli altri a giudicare della “significatività” di cui si è o non si è naturalmente portatori» (N.V., p. 63).
Don Rocco era “tutto d’un pezzo”: non era disponibile a scendere a compromessi o alla logica del “fine che giustifica i mezzi” come affiora da molteplici testimonianze come quella che segue:
«Integro e casto, poté rifiutare del pane offerto per i bambini della colonia estiva di S. Chiara perché accompagnato da un pacchetto di fac-simile riportanti la preferenza per un candidato alle elezioni politiche che si dovevano svolgere in quel periodo. Ecco perché, durante le varie assemblee cittadine non solo politiche ma anche ecclesiali poteva alzare forte la sua voce per gridare lo sdegno di chi era realmente profeta del suo popolo, voce del suo quartiere, contro la corruzione e la frode, il disimpegno e la mistificazione. Tutto questo io l’ho visto e l’ho sentito. Di questo e di altro sono testimone io che, tratta dalle tenebre di una vita senza senso, ho scoperto gradualmente, grazie alla sua parola e al suo esempio, la Luce di Dio che brilla attraverso gli occhi di chi, come Rocco, ha fatto di Dio, della sua Volontà, del suo Amore totale e totalizzante, il respiro della sua vita» (“Giglio delle convalli”, p.60).
In prima linea per la difesa dei diritti e della dignità umana, Don Rocco fu uno dei primi in Sicilia, in sintonia con Don Lorenzo Milani, a sensibilizzare all’obiezione di coscienza e al volontariato sociale:
«Don Rocco Rindone ebbe l’intuizione, e il coraggio, perché gli obiettori erano ancora guardati con diffidenza, di fare di Santa Chiara il primo ente in grado di accogliere quanti intendevano avvalersi della legge sul servizio civile» (P.P., p.66).
Indimenticabile e profonda l’omelia del sabato sera, 11 settembre 1982 (XXIV Domenica Anno B)[5], pronunciata presso la Chiesa “Santa Chiara”, poco prima di partire a San Gregorio di Catania dove era stato trasferito. In essa affiora il senso dell’obbedienza e l’adesione esemplare a compiere la volontà del Padre. Non penso che sia stata una cosa spontanea e facile. Tutt’altro. Ordinato nel 1968, anch’egli era stato soggiogato dal fascino della libertà senza limitazioni, dalla rivoluzione sessantottina e dal “cambiamento per il cambiamento”. Nel suo diario, diversi anni dopo, il 12 aprile 1982, ebbe ad annotare:
«La rivoluzione può essere inizialmente affascinante, ma a lungo andare diventa una baronia, per cui, se non c’è l’amore di Qualcuno, non vale più la pena di lottare» (Diario, 12 aprile 1982, p. 5).
Di Don Rocco si può affermare che fu un uomo di frontiera e simultaneamente un uomo senza frontiere. Il suo respiro non era corto e ripiegato solo sui problemi del luogo, ma aperto e missionario ad gentes: anche se non partì per le Missioni, dopo aver vissuto la toccante esperienza al Cottolengo a Torino (cfr. Diario, 28 ottobre 1964, p. 19) e quella a Santa Chiara, si impegnò con il Progetto Africa, fu per alcuni anni incaricato dell’animazione missionaria ispettoriale, operò in favore dell’Africa e dell’Etiopia. Aveva il fuoco di Pentecoste nel petto (cfr. Diario, 1-4 aprile 1965, p. 17) e il suo cuore batteva per i vicini e i lontani, perché tutti prossimi nel cuore di Dio.
Mi piace terminare con la testimonianza di Claudio Pace che riporta la sua esperienza personale a “Santa Chiara” e si fa voce del desiderio di tanti, per nulla assopito dopo trent’anni dalla sua nascita al Cielo:
«Quando ti avvicinavi a lui, magari per avere qualche suggerimento o un incoraggiamento, ti freddava, con qualche battuta sardonica, da lasciarti stecchito. Ricordo una sua lezione morale fatta di pochissime parole dopo le tante mie di adolescente, in cui cercavo di spiegargli quelli che ritenevo fossero i miei problemi, mi seccò con una frase: “C’è troppo “IO” nei tuoi discorsi”. Aveva perfettamente ragione. […] La Palermo civile gli ha dedicato una via di un quartiere popolare, chissà se i Salesiani e la Chiesa di Palermo dedicheranno a lui un po’ di tempo e risorse perché la sua santità sia riconosciuta come quella di un più famoso sacerdote, Don Pino Puglisi, con il quale certamente condivideva lo stesso zelo apostolico e con il quale fu un esempio chiaro di un annuncio del Vangelo limpido e privo di qualsiasi compromesso con la mondanità»[6].
[1] Nato a Pietraperzia EN, il 10 novembre 1939 e morto a Calvaruso ME, Santuario “Ecce homo”, il 30 marzo 1988, mercoledì santo, ad appena 49 anni d’età, di cui 30 come salesiano di Don Bosco e 20 come presbitero. Oltre alla lettera necrologica (Catania, 24 giugno 1988) a firma dell’allora Ispettore Don Vittorio Costanzo, ho riletto con interesse il volumetto pubblicato nel primo anniversario della morte: Don Rocco Rindone. Ricordi e testimonianze di un cuore impegnato per i giovani poveri che accolse la sofferenza come gloria di Dio, [supplemento al n. 42 di “Sicilia Salesiana Missionaria”], Scuola Grafica Salesiana, Palermo 1989, 2005 [ristampa anagrafica]. I numeri di pagina riportati nel testo si riferiscono a questo libretto commemorativo.
[2] In Archivio ispettoriale, Via Cifali, 7, Catania, Cartella Sac. Rindone Rocco.
[3] Disponibile in internet: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/04/09/il-mistico-ribelle-dell-albergheria.html (25.04,2018).
[4] Purtroppo non è stato possibile trovare in internet né il filmato, né il testo dell’intervista.
[5] La trascrizione dattiloscritta è conservata in Archivio ispettoriale, Via Cifali, 7, Catania, cartella “Sac. Rindone Rocco”. Alcuni brani significativi sono contenuti nel volumetto alle pp. 24-28.
[6] Claudio Pace Blogger, Rocco Rindone: un salesiano di Ballarò con lo stile di Papa Francesco (Terni, 31.12.2013) in www.claudiopace.it (25.04.2018).