Legato alle radici siciliane, ma con il corpo e l’anima in India
Don Rosario Stroscio è uno dei 460 missionari salesiani che dal 1906 ad oggi si sono recati in India. Nacque a Furnari (ME), in Sicilia, nel 1922. Raggiunse l’India ancora adolescente, nel 1939, dopo aver lasciato la Sicilia sulle orme dei missionari che l’avevano tanto colpito nella sua giovinezza: Mons. Luigi Mathias, Don Vincenzo Scuderi e tanti altri. Quanti di noi hanno ascoltato questi missionari possono attestare che parlavano dell’India, come un giovane parla dell’innamorata. Erano fisicamente in Sicilia, vi stavano per poche settimane, ma il cuore era tutto per l’India e non vedevano l’ora di ritornare.
In una intervista sul “Corriere della Sera” di alcuni anni fa, così parlava Don Stroscio: «Sono arrivato in India nel 1939, a 17 anni. In Sicilia vidi i missionari che avevano portato il vangelo nelle terre degli infedeli, sulle orme di san Tommaso: storie di malattie tropicali, conversioni, persecuzioni. I missionari erano gli eroi della mia giovinezza. Decisi che sarei stato uno di loro. Mia madre capì che non mi avrebbe più rivisto, e si disperò: stava per perdere un altro figlio maschio; il primogenito, Giuseppe, era morto, e dopo erano nate quattro bambine. Salpammo da Napoli sul Conte Biancamano, che in dieci giorni ci portò a Bombay attraverso il canale di Suez, il Mar Rosso e l’oceano».
Cominciò una vita di impegno e povertà. «Eravamo poverissimi, ma allegri. Bisognava fare attenzione a uscire la sera, perché c’erano ancora le tigri». Lui comunque sopportò la sua croce e spiegò il cristianesimo agli Indiani con semplicità. Perché «è una religione difficile solo per quelli che hanno studiato troppo», chiarisce. Essi «capivano al volo concetti come la resurrezione e l’immortalità dell’anima. La presenza di Dio, considerata spesso ostica da accettare in Occidente, era una specie di ovvietà». Già il primo mese in venti chiesero il battesimo. E fu solo l’inizio.
Nella sua lunga vita dovette superare molte difficoltà: come quando nel 1940 Mussolini dichiarò guerra al Regno Unito – di cui l’India era ancora colonia – e lui venne internato in un campo. Lo trattavano bene, ma nel deserto del Rajastan c’erano quasi 50° C e i prigionieri cominciavano a morire. Così il missionario e gli altri compagni di sventura vennero spostati in una località ai piedi dell’Himalaya. Furono liberati solo nel 1944 e allora don Stroscio riprese la sua missione.
L’incontro e il legame privilegiato con Madre Teresa di Calcutta
Tanti gli eventi d’importanza storica di cui fu testimone, sopra tutti vi era il primo incontro con Madre Teresa. «La vidi per la prima volta nella cattedrale di Calcutta, nel 1948. Aveva ottenuto di lasciare il convento per trasferirsi tra le baracche. Il suo direttore spirituale, il gesuita belga Van Exem, quel giorno la trattò quasi con disprezzo, e lei con umiltà non si ribellò. Andavo a predicare per le suore. Madre Teresa era molto intelligente, aveva un grande dono per le lingue. Ma era anche molto semplice. E poi aveva un bellissimo sorriso. Eravamo un’anima e un cuore solo: lei capì che io l’avevo capita; e io capii che lei aveva capito me. Andavo a trovarla nella sua celletta: una branda, un tavolo, una panca, e crocefissi dappertutto. Cercava il volto di Gesù negli altri, e lo trovava nei morenti, negli handicappati, negli orfani, nelle donne rese folli dal carcere o dalle violenze. Sulla sua tomba ha voluto che fosse scritto, con i petali dei fiori: “Io non faccio nulla, fa tutto Lui”».
Oltre a costruire la grande chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice a Gobra, Calcutta, don Stroscio fu il primo Presidente Nazionale del capitolo indiano del Movimento Mariano per i Sacerdoti, che servì per diversi mandati a partire dagli anni ’70.
Docente presso l’Istituto Salesiano di Sonada e poi Ispettore a Calcutta (1967-1973), venne incriminato del reato di “conversione” durante il suo servizio missionario a Maliapota, nella diocesi di Krishnagar, e rischiò di essere deportato. Fu allora che Madre Teresa intervenne in suo favore e chiese al governo marxista di averlo come Cappellano delle Missionarie della Carità presso il grande centro riabilitativo di “Prem Dan”, sempre a Calcutta. Le autorità allora ritirarono l’ordine di espulsione e dal 1979 don Stroscio sempre ha continuato a risiedere a Calcutta.
Don Stroscio ebbe modo di “sdebitarsi” con la futura santa alcuni anni dopo, quando, nel 1997, Madre Teresa era ricoverata per dei problemi cardiaci e l’allora arcivescovo di Calcutta, mons. Henry Sebastian D’Souza chiese proprio a Don Stroscio di pregare per lei e di impartirle l’unzione degli infermi. I due pregarono insieme e in quell’occasione la religiosa si ristabilì.
Don Stroscio fu per lunghi anni confessore di Madre Teresa e di tante consorelle della Congregazione da lei fondata. Ma quali peccati aveva mai da confessare madre Teresa? Continua nell’intervista citata: «Siamo tutti peccatori. Don Bosco, padre di noi salesiani, che era un santo potentissimo, capace di guarire i moribondi e – se avesse voluto – di far morire i sani, si confessava ogni settimana. Madre Teresa avvertiva questa necessità più di rado, e mi confidava cose che ovviamente conosce e conoscerà solo il Signore. Parlavamo in inglese, perché lei non ha mai imparato l’italiano. Posso raccontare questo: quando madre Teresa si sentì prossima alla fine, e l’arcivescovo di Calcutta mi mandò a chiamare perché le impartissi l’estrema unzione, anche lei aveva timore di morire. E tremava. La morte è terribile per tutti. Anche lei che era una santa, che aveva visto morire migliaia di derelitti, che era certa della vita ultraterrena così come era certa che il sole sorge e tramonta, anche lei aveva timore. Non paura; trepidazione, ecco. Trepidazione di presentarsi davanti a Dio. Il bello fu che quella volta non morì…».
Negli ultimi anni della vita Don Stroscio era quasi cieco da un occhio ma manteneva tutti i capelli. Aveva un abbraccio vigoroso e uno spiccato senso dell’umorismo. Oltre alla chiesa ha fatto erigere due statue ai santi della sua vita: don Bosco e madre Teresa, di cui è stato amico e confessore per oltre mezzo secolo. Ha anche costruito un campo da calcio, l’unico del quartiere dove i bambini giocano a piedi nudi sull’erba anziché sui sassi.
La conoscenza e l’amicizia con Don Francesco Convertini
Don Stroscio conobbe anche il Venerabile Francesco Convertini (1898-1976), SDB, specialmente gli ultimi anni in cui vissero nella stessa comunità religiosa. Fu suo superiore provinciale e direttore della comunità in cui Don Convertini morì l’11 febbraio 1976.
Eloquenti sono le parole con cui Don Stroscio concluse l’annuncio del decesso di Don Convertini: «Tutta la sua vita fu una magnifica testimonianza della tecnica più fruttuosa del ministero sacerdotale e del lavoro missionario. Possiamo sintetizzarla nella semplice espressione: “Per vincere anime a Cristo non c’è mezzo più potente della bontà e dell’amore!”». Parole confermate anche dalla lunga e laboriosa vita missionaria di don Stroscio.
Un intreccio di testimonianze
Don Stroscio dice di Madre Teresa: «Fu attaccata per la sua condanna dell’aborto. In molti la criticavano; ma era impossibile restare indifferenti di fronte a lei. Una volta venne a intervistarla una giornalista americana, prevenuta, altera. Rifiutò di mettersi a piedi nudi. Il suono dei suoi tacchi a spillo risuonava per il convento. Madre Teresa la ricevette mentre toglieva i vermi dal corpo di un moribondo, raccolto all’angolo della strada. Alzò lo sguardo, la vide, le disse: “Abbia pazienza, alla mia età non vedo più bene. Mi aiuterebbe?”. La giornalista si buttò ai suoi piedi in lacrime. Madre Teresa le aveva toccato il cuore. Era davvero una santa».
«Raccogliemmo 133 testimonianze per la causa di beatificazione. Non fu difficile trovare il miracolo: almeno cinque donne sostenevano, confermate dai medici, di essere state guarite da lei in una sola notte».
Infine, ritorna a parlare della sua terra: «Ormai non parlo più italiano con nessuno. Solo con il mio angelo custode, che però non mi risponde… In Italia non tornerò più. Ci sono stato l’ultima volta nel 2003, per la beatificazione di madre Teresa. È diventata una terra senza moralità. Accogliere tutti questi maomettani mi pare poco lungimirante: verrà il giorno in cui abbevereranno i loro cavalli a San Pietro. Ma sa cosa mi ha colpito di più? Vedere tante donne girare con il gatto in braccio, come se fossero figli. La Sicilia in cui sono cresciuto era di una povertà medievale, però le donne avevano molti figli. Un Paese che ha sostituito i bambini con i gatti è un Paese senza domani. Ma io il domani non lo vedrò, e questo mi conforta. Sono felice di aver alimentato la fiamma della fede in queste terre lontane. Presto lascerò il mio corpo e vedrò Dio. Lo vedrò faccia a faccia».
Grazie Don Rosario per la tua bella testimonianza intrecciata mirabilmente con quella di Madre Teresa di Calcutta e di Don Francesco Convertini. È per noi un richiamo alla santità e alla missione.
La santità generativa di Madre Teresa
«Madre Teresa mi ha recuperato dal secchio della spazzatura. Sono nato il 9 settembre 1982 e ho vissuto dieci giorni con i miei genitori. Il 19 settembre mia madre mi ha gettato nel bidone dell’immondizia davanti alla Casa delle Suore della Carità» di Amravati, una baraccopoli di Bombay. Così Emmanuel Leclercq nato in India, adottato da una famiglia francese e oggi seminarista della diocesi di Avignone ai microfoni del Tg2000, il telegiornale di Tv2000, ha raccontato alcuni particolari inediti della sua incredibile storia.
A poco più di due mesi dalla canonizzazione di Madre Teresa il Tg2000 ha raccolto la testimonianza del seminarista pubblicando immagini e foto inedite grazie al lavoro della regista Pina Cataldo.
«Se mia mamma mi ha abbandonato in un secchio della spazzatura davanti alla Casa di Madre Teresa – ha aggiunto Emmanuel – non è stato per caso. Dio ha voluto che io fossi gettato in quel bidone! Perché? Non lo so. Un giorno forse lo saprò. Quando sono stato ritrovato da Madre Teresa il 19 settembre 1982, avevo il nome di mia mamma scritto sul braccio e la data dell’abbandono. Il nome di mia mamma è Subadhra, un nome indu, che vuol dire “la brava madre”. E anche al collo avevo una collanina sulla quale era scritto in indu il mio nome: Robin».
«Ringrazio la mia mamma – ha proseguito Emmanuel – per avermi dato un nome e adesso che mi chiamo Emmanuel, ho dato il nome di Robin al mio angelo custode. Direi che il mio angelo custode è la impercettibile voce e la minuta mano di Madre Teresa sopra di me ogni giorno. Mia madre mi ha abbandonato per amore, perché nella parola “abbandono” c’è la parola “dono”. Io sono stato “abbandonato” affinché venissi “donato”. E sono stato donato a una famiglia, perché dopo un anno di permanenza nella casa delle Missionarie della Carità sono stato adottato da una famiglia francese. Io devo tutto a loro: mi hanno ridato una dignità, mi hanno educato, mi hanno dato la possibilità di studiare e, grazie a loro, posso diventare sacerdote. Mi mancano tre anni per realizzare quel sogno».
«Per undici mesi – ha raccontato Emmanuel – sono stato tra le braccia di Madre Teresa in una culla della casa per i bambini abbandonati, perché lei personalmente mi ha raccolto dall’immondizia per mettermi in una culla. E il calore di Madre Teresa quando mi prendeva fra le braccia, lo sento anche oggi».
«Ho conosciuto la mia storia – ha ricordato Emmanuel – perché i miei genitori adottivi me l’hanno raccontata, quando avevo 7 anni. Ma poi l’estate scorsa, quando sono tornato dopo oltre trent’anni in India per la prima volta, ho avuto la gioia di incontrare una suora che adesso ha 90 anni e che era presente quando sono stato trovato nel bidone della spazzatura. Mi ha narrato la mia storia e mi ha fatto vedere la collanina con il mio nome ‘Robin’ e il registro dove era scritto il mio nome, la data di nascita e la data dell’abbandono, che portavo scritte sul braccio, e anche la data del ritrovamento che era lo stesso giorno dell’abbandono. Quando ho visto il registro, ho ringraziato il Signore anzitutto per il primo dono, quello della vita. Poi ho ringraziato mia madre che mi ha concepito e mi ha messo al mondo, ho ringraziato Madre Teresa che mi ha trovato e salvato, infine ho ringraziato la mamma che mi ha adottato».
«Purtroppo – ha concluso Emmanuel – non ho incontrato mia madre perché la suora mi ha detto che non era possibile trovarla, in quanto sul mio braccio era scritto soltanto il suo nome Subadhra che è molto diffuso in India e non c’è alcun documento che possa aiutarci a trovarla. Però io non ho mai smesso di cercarla, prego sempre per lei e mi chiedo: “Forse è già deceduta, forse ho dei fratelli e delle sorelle, le dò appuntamento lassù in Cielo per cantare insieme la gloria di Dio”».
Il Video testimonianza di Emmanuel è disponibile su:
https://www.papaboys.org/raccolto-nel-cassonetto-madre-teresa-domani-prete/
Madre Teresa: Le 24 domande e le 24 risposte
Il giorno più bello? Oggi.
L’ostacolo più grande? La paura.
La cosa più facile? Sbagliarsi.
L’errore più grande? Rinunciare.
La radice di tutti i mali?L’egoismo.
La distrazione migliore?Il lavoro.
La sconfitta peggiore? Lo scoraggiamento.
I migliori professionisti? I bambini.
Il primo bisogno? Comunicare.
La felicità più grande? Essere utili agli altri.
Il mistero più grande? La morte.
Il difetto peggiore? Il malumore.
La persona più pericolosa? Quella chemente.
Il sentimento più brutto? Il rancore.
Il regalo più bello? Il perdono.
Quello indispensabile? La famiglia.
La rotta migliore? La via giusta.
La sensazione più piacevole? La pace interiore.
L’accoglienza migliore? Il sorriso.
La miglior medicina? L’ottimismo.
La soddisfazione più grande? Il dovere compiuto.
La forza più grande? La fede.
Le persone più necessarie? I sacerdoti.
La cosa più bella del mondo? L’amore.