In preparazione alla festa di Don Bosco

Quel fallito di don Bosco

Tutto è pronto tutto sbrilluccica per la festa del nostro amato padre; chissà quante iniziative, chissà quante belle parole spese per don Bosco, rievocando qualche sogno, qualche fatto che riempio il cuore e gli occhi di gioia. Lui che quando morì il giorno del suo funerale non si faceva altro che dire “che bella festa”; lui che ai giovani promise ogni suo respiro, lui che moltiplicava le castagne, lui che si portò i ragazzi del carcere in gita senza farne scappare uno, lui che non sbagliò mai nulla… ma fu davvero così?

Il rischio, per noi figli di questo grande santo, è che parlando di lui il fervore e l’amore prendano il posto della razionalità; si sa che l’amore tende ad annullare i difetti dell’altro; un esempio concreto è l’altezza di don Bosco; le statue e i quadri il più delle volte lo presentano come snello e lanciato, alto che guarda i suoi ragazzi; anche se in realtà il nostro caro don Bosco non superava i 168 cm e forse alle volte erano i ragazzi che lo guardavano dall’alto.

Così un grande rischio che si corre è pensare che tutto ciò che don Bosco toccasse diventava oro; che non abbia mai sbagliato, che non abbia mai fallito anche con qualche ragazzo. Si rischia di cadere in una spirale di perfezionismo che non rende il giusto onore a don Bosco e all’arte dell’educare; ma andiamo con calma e cerchiamo di parlare potabile.

Una delle più grandi tendenze del nostro tempo è il perfezionismo: devi avere un corpo scolpito (cosa che il sottoscritto può ben vantare), devi superare tutti gli esami al primo appello, devi gonfiare i numeri degli eventi perché la gente deve sapere che eravate tanti, devi avere successo e ambire all’unica e ambita spunta blu per dire che sei un vero VIP insomma un bel riassunto lo fa molto bene l’antico saggio “devi mostrarti invincibile, collezionare trofei; ma quando piangi allo specchio scopri davvero chi sei”.

Una volta prendendo il treno sentii una mamma dire al figlio “guai a te se piangi e mi fai fare brutta figura davanti a tutti”, ci stiamo educando sempre più ad un’aridità facciale, a non dover piangere in pubblico o davanti agli altri perché non sia mai ci dovessero vedere per quello che siamo realmente e cioè fragili. E qui già il nostro caro padre don Bosco ci da una grande lezione: era un piagnone! Ma attenzione non uno di quelli per ogni cosa piange, non è che se vedeva un video di gattini si metteva a piangere come un rubinetto; perché da buon contadino torinese aveva assorbito un carattere quasi duro e poco duttile. Ma allora perché piangeva? Piangeva perché di fronte alla bellezza, di fronte all’operato di Dio non si può rimanere impassibile, don Bosco si commuoveva perché riusciva a vedere il Buon Dio nel suo quotidiano, don Bosco piange perché il suo rapporto con Dio non è burocratico e moralista (“questo non si fa se no Gesù piange”) ma era un rapporto di vero figlio che si sentiva amato sempre, gratis e comunque.

E allora mai come oggi occorre educare all’insuccesso che diventa antidoto all’angoscia.

“Occorre che il padre si metta accanto a loro [i figli], e testimoni di aver attraversato lui stesso momenti di difficoltà e li aiuti a costruirsi un futuro, senza negare che il dolore e gli inciampi possano esistere, senza limitarsi a vuote esortazioni – “Devi reagire”, “Devi essere felice” –, legate come sempre alla fragilità adulta. Dire che il padre dovrebbe restare accanto al figlio nei momenti di difficoltà non significa crogiolarsi nella sofferenza, ma cercare di testimoniare che le crisi fanno parte della definizione di sé durante la crescita

 

Educare, mai come oggi, significa «smettere di addestrare i destinatari alla perfezione in ogni ambito, spiegare loro che dagli inciampi ci si può sempre rialzare e che gli errori aiutano a crescere». I fallimenti, come la mortalità esistono e come tali vanno inseriti nel nostro contesto, nel nostro modo di fare. In sintesi per i più pigri: se sbagli non succede nulla sei semplicemente umano! E pur avendo doni sovrannaturali, anche il nostro don Bosco ha sbagliato, anche lui ha fallito; togliamoci quell’idea che don Bosco li ha salvati tutti! Togliamoci quell’idea che don Bosco educativamente non ha mai sbagliato, non ha mai buttato fuori nessuno, non si è mai “arreso” con qualcuno, non si è mai arrabbiato con uno dei suoi giovani. Certo che è successo; parafrasando il libro del Siracide: “figlio se ti presenti come animatore/educatore, preparati al fallimento”.

Ciò che rende don Bosco grande non è il fatto che non abbia sbagliato mai; ma che sbagliando abbia imparato dai suoi errori. Come non pensare al caso del cavaliere Federico Oreglia, entrato in Oratorio nel 1860, diventato salesiano nel 1862 e emessi i voti perpetui come coadiutore nel 1865, forse con lui don Bosco ebbe un eccesso di zelo, tanto che quando si allontanò per un periodo di riflessione il nostro padre maestro ed amico attuò una tattica ai confine dello stalking, pur non avendo i mezzi di comunicazione di oggi, il santo torinese scrisse diverse lettere al suo Federico e al fratello di lui affinché potesse ripensarci e continuare a dirigere la tipografia e la libreria di Valdocco (mi sembra di vedere alcuni salesiani che appena vedono un giovane che prega lo tartassano di messaggi e chiamate); ma a nulla servì in quanto il giovane Federico decise in fine di farsi Gesuita; don Bosco da parte sua visse questo cambio come una grave sconfitta. O ancora come si può non prendere in esame lo scritto che lo stesso don Bosco scrisse: “Valentino o la vocazione impedita” in cui parla di un giovane che non riesce a salvare dalle tanto temute “vacanze”. O come non prendere in considerazione tutto il caso tra don Bosco e il vescovo Gastaldi che portò quest’ultimo a non rinnovare a don Bosco il “patentino” per poter confessare; al di là del torto e della ragione in questo periodo, siamo nell’ultima fase della vita di don Bosco, diede al santo torinese delle belle “gatte da pelare” ma lo aiutò a crescere nel non essere troppo elastico soprattutto nell’ambito della formazione dei suoi salesiani. Per ultimo, anche se non l’ultimo, mi permetto di citare un piccolo episodio che riguarda don Bosco, Michelino Rua e Giuseppe Buzzetti; pensando a don Rua, il primo successore di don Bosco, non si può che pensare ad un esempio di integrità, rettitudine, studio; “la regola vivente” veniva chiamato; eppure il nostro Michelino non riusciva a digerire il Latino, era una materia in cui andava male; quando il professore lo disse a don Bosco si dice che ne rimase “diguastato” che forse si stava preparando per un sonoro rimprovero; passando di la il giovane Buzzetti chiese a don Bosco il permesso di parlare lui con il giovane Rua, e avvicinatolo con fraterna amorevolezza, lo informò, nel modo più conveniente e cortese, di ciò che il maestro diceva di lui; Rua che da parte sua non si era reso conto di queste gravi lacune si mise d’impegno per recuperare le gravi mancanze; e forse fu proprio in quel momento che don Bosco ricordò e cercò di attuare il detto di San Francesco di Sales “si prendono più mosche con un cucchiaino di miele che con un barile di aceto”.

Dolori e fallimenti fanno parte della nostra crescita e non vanno silenziati o nascosti, ma vanno affrontati, perché ogni realtà ignorata prepara la sua vendetta. In questa festa allora toccherà far scendere il nostro don Bosco dai tanti piedistalli che abbiamo costruito e renderlo più umano, più alla nostra portata per poterlo amare ancora di più perché ci renderemo conto che in fondo “è uno di noi”, ha pianto e sbagliato come noi. Viva don Bosco, padre maestro e amico dei giovani, e viva soprattutto quel fallito di don Bosco che ci ricorda che il Buon Dio sa scrivere dritto fra le righe storte.

Stefano Cortesiano SDB